Bella la mostra di Sebastiao Salgado che si inaugura al Forte di Bard, GENESI. L’ho vista a Milano e la consiglio per il suo importante intento estetico-didattico. Salgado non è un reporter e non è un antropologo, è un narratore di storie. Racconta utilizzando le immagini espresse con la camera fotografica. Immagini al servizio di un pensiero: il suo. Per questo sono tollerabili e giustificate le sue fotografie costruite ad arte. Quei ritratti posizionati fin nei minimi dettagli. Altrimenti sarebbero falsi documenti. La fotografia è il linguaggio, ma ciò che crea non è riconducibile al fotoreportage e alla ricerca antropologica, è arte in senso lato. Linguaggio puro che prende in prestito la luce invece dei pigmenti o di altri materiali traducibili in espressione. I ritratti che realizza dei Mursi sono gli stessi che scattano decine e decine di turisti che arrivano al villaggio non troppo distante da Jimma, ma lui sa contestualizzarli all’interno di una narrazione che parla di un pianeta da difendere. E l’incanto dei suoi bianchi e neri è finalizzato allo stupore necessario, affinché il messaggio arrivi dritto dritto al cuore. E ci arriva, anche tramite la ricostruzione di una verità che oggettivamente non esiste più. Non in termini di quella purezza rappresentata. E’ il caso dei Mursi che spendono i soldi guadagnati con le acconciature più stravagandi, inventate apposta per i turisti e i fotografi, per trascorrere pomeriggi interi in compagnia di pessimo alcol. Ho citato questo caso perché anch’io sono stata in quel villaggio, ma è probabile che anche altre realtà siano meno idilliache di come il grande fotografo ce le rappresenta. Ma il fine giustifica i mezzi e il fine di Salgado è nobile. Riuscisse a trasmettere un po’ di amore verso il pianeta e i suoi abitanti più innocenti, sarebbe già abbastanza per farsi perdonare le sue contraddizioni.
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SFIGATES
13 agosto 2009L’esposizione fotografica dal titolo RURALES non è né bella né brutta, è solo inutile. Il tema è quello della donna nella società contadina sviluppato in modo scontato, direi banale. “Accosta i suggestivi scatti etnografici d’antan in bianco e nero, realizzati dai pionieri valdostani della fotografia (Ronc, Gontier, Brocherel, D’Herin-Seris, Berard, Meynet, Champion e Willien), a quelli moderni del fotografo Alessandro Zambianchi“. Sai che inventiva! Le fotografie storiche sono belle perchè è bello tutto ciò che documenta il passato; quelle contemporanee ritraggono donne impacciate, rigide, prive di una qualsiasi emotività. Forse il fotografo Alessandro Zambianchi (ciao Ale!), voleva reiterare la fissità dei volti in b/n per sottolineare “la fatica e i sacrifici di chi vive, oggi come in passato, a stretto contatto con la terra”, ma non basta mettere in posa delle donne-manichino per esprimere la durezza di una vita vissuta fra le mucche e le balle di fieno. Ci vuole empatia. E questa a Zambianchi è mancata. Le sue immagini, infatti, non esprimono nulla. L’accostamento delle donne di oggi con quelle che sono state le contadine di ieri (praticamente tutte, difficile trovare una laureata a quei tempi!) non ”squarcia il velo che ha celato l’importanza della figura femminile all’interno del mondo rurale”, obiettivo primario della mostra. Anche perché la scelta delle foto storiche si è concentrata più sui ritratti in posa che sul vivere quotidiano. Certo, l’uso delle istantanee allora non era diffuso, ma sicuramente nel ricco archivio del Brel si poteva trovare qualcosa di maggiormente illustrativo, visto che il tema portante, oltre alla donna, è il lavoro da lei svolto fuori dalle mura domestiche. Un contributo necessario che non viene sviluppato, a discapito del senso complessivo dell’operazione.
E non ci sono balle di fieno su ruote che tengano!
Questa mostra inutile l’abbiamo pagata sessantamila euro!
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