L’Abate liberale
Riceviamo da François Stevénin e volentieri pubblichiamo.
Prima di tranciare giudizi, ora per allora, sarebbe indispensabile conoscere il pensiero e l’opera globale dell’Abbé Trèves. E’ intelletualmente disonesto extrapolare alcune pagine dei suoi scritti senza pubblicare che l’Abbé Trèves fu promotore di cultura, di iniziative nel sociale e di ideali politici antifascisti, anti monarchici.
Fu liberale? Certo sì ! …. e anche progressista, in raffronto alla situazione di cento e più anni anni fa… La battaglia per la creazione di una cassa pensione per i lavoratori anziani e invalidi, la battaglia per il mondo agricolo e per i diritti delle donne, dimostrano quanto ho appena ricordato.
Ricordo l’articolo di Joseph Perrin apparso sul Corriere della Valle nel 2012 e un mio scritto che possono meglio dare la possibilità di conoscere la sua opera.
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6 Maggio 2015 a 08:06
Mi scappa da ridere…..
il Primo Maggio è diventata la festa di san Giuseppe lavoratore, le casse di mutuo soccorso non sono state inventate nel 1800 dal movimento operaio e socialista e dalle Trade Unions ma dai sacrestani della valle del GS Bernardo, va a finire che la Cgil l’ha fondata san Jean Bosceau.
Si chiama “appropriazione indebita”, la praticano le mosche cocchiere del localismo.
Santa madre Chiesa e i clericali sono l’alfa e l’omega del pensiero moderno.
Nulla salus, extra ecclesiam….
Considero l’ex consigliere Stevenin un interlocutore di troppo smisurata buonafede e levatura culturale, dunque non frequentabile per le mie modeste capacità.
Ergo mi taccio, annichilito da cotanto senno.
Ma le rire, il m’ échappe……
Per gli altri lettori posto una riflessione qua sotto, grazie.
6 Maggio 2015 a 09:43
Merci François
6 Maggio 2015 a 15:51
Cari tutti, tranne il politicante Stevenin,
Eccovi la piccola riflessione innescata dal libro di Dèsandré, in cui la figura dell’abbè Treves è ben presente.
Due leggende hanno rovinato la ingenua adolescenza politica della Sinistra, protrattasi per troppo tempo:
che l’antifascismo sia stato un fenomeno di massa,
che quello valdostano sia stato ancora più corale di quello italiano, quasi una sollevazione antropologico-linguistica contro la dittatura fascista.
Questa seconda vulgata consentiva poi ai valdostani di occultare il fenomeno dei separatisti finanziati dallo spionaggio francese che avevano spaccato in due il movimento partigiano, assolutamente minoritario fino al 26 aprile 1945.
Dunque siamo cresciuti credendo alla telenovela del fascismo come fenomeno estraneo alla società italiana, ma addirittura marziano per la società valdostana che, in quanto estranea al costume italiano, lo aveva sopportato con duplice sofferenza, sdegno e intima avversità.
La teoria del fascismo come fenomeno di importazione italiana, degno del sud del mondo, ha consentito ai teorici xenofobi di presentare la Vallée come monda dall’infezione fascista per virtù “naturali”, accentuandone il razzismo latente:
i vizi della dittatura erano estranei alla cultura tradizionale del fiero popolo di montagna, pronto da sempre a battersi come Gugliemo Tell. Che non a caso non è figura storica, ma invenzione propagandistica.
Una balla.
Dura invece realtà storica:
le élites dirigenti clericali e liberali valdostane non si oppongono affatto al Fascismo, il cui spirito liberticida non spaventa né impressiona, ma al contrario viene apprezzato in termini anti-popolari e anti- sovversivi.
Sia liberali che clericali transitano felicemente dallo Stato liberale a quello fascista preoccupati unicamente di mantenere uno status sociale di privilegio, e all’ombra del Fascio costruiscono solide carriere, come il notaio Chanoux, iscritto al PNF dal 1928 al 1943.
Solo dopo il 25 Luglio e dopo l’8 Settembre 1943, quando è chiaro che il Fascismo è agonizzante e la guerra é persa, si convertiranno con prudenza , spudoratezza e trasformismo molto italico ad un timido afascismo che predica al movimento partigiano solo attendismo e rinuncia ad ogni azione: la libertà verrà da fuori (come il Fascismo….).
Manca loro la lungimiranza e la dignità di un De Gaulle, che vuole la liberazione di Parigi per mano di truppe francesi, non anglo-americane.
Chi ha sempre teorizzato per ideologia localista che la differenza linguistica era anche differenza di costume politico, è crudelmente smentito.
Finalmente un libro ( ma non è il primo…) costruito con corretto metodo storico e sulla base di documenti.